“Allor si mosse, e io li tenni dietro” Dante, Inf . I, 136 “Però disse il maestro: “Se tu tronchi qualche fraschetta d’una d’este piante, li pensier c’hai si faran tutti monchi”. Dante, Inf. XIII, 28-30 “Attienti ben, ché per cotali scale”, disse ‘l maestro, ansando com’uom lasso “conviensi dipartir da tanto male” Inf. XXXIV, 82-84 I maestri e la luce oscura dell’oximoron Nella figura dell’oximoron si applica ad una parola un epiteto che, di primo acchito, sembra avere una funzione di annullamento semantico del concetto principale. Gli gnostici parlavano di “Luce oscura”, mentre gli alchimisti di un “sole nero”. Un cartello pubblicitario oggi annuncia la bontà della “coca cola”, mentre più sotto l’edicola mostra la locandina con il titolo in grassetto sull’ennesimo attentato kamikaze in Iraq. La realtà è piena di tensioni e contrasti. Parole, atti, gesti dolci e soavi si accompagnano ad azioni violente anche nella nostra storia personale, quotidiana. Le vicende umane, l’umana avventura, sono ricolme di azioni nobili e disinteressate, la poesia, l’arte, e la creazione. Da un lato la bellezza e la creazione dall’altro versante l’odio, la rapina, lo spirito devastante della guerra, la devastazione dello spirito. Finora, tuttavia, la bellezza non ha mai cessato di offrire il suo afrore di cipria (e G. Caproni non lo vuole dimenticare), lieve nell’aria, sottile, appena percettibile, ma omeopaticamente penetrante e salvifica. Questa mattina, uscendo dalla presidenza, alla ricerca di un rinfrancante caffé, sul marciapiede di via Moriondo, ho trovato per terra una moneta da venti centesimi di Euro, credo di rame. L’ho raccolta e mi è sovvenuto un racconto di Borges “El zahir”. Qui il porteño cieco cantore, racconta di una moneta di venti centesimi che a Buenos Aires era chiamata così. Mi sono tornati alla mente i grandi, larghi marciapiedi di Buenos Aires. Mi sono detto: “qui questa moneta non ha quel nome così bello, da nicchia delle luci” e poi è quasi un in più. Vale quello che vale. Ma in Jorge, invece, quella moneta lo rimanda ad una tigre che ha quel nome, un cieco della moschea di Surakarta, un astrolabio che Nadir Shah aveva fatto lanciare in fondo al mare, una venatura di una delle milleduecento colonne della più grande moschea di Spagna, quella di Cordoba, o il nome del fondo di un pozzo nel cuore del ghetto ebraico di Tetuàn. Mi sono detto ancora che in fondo da noi una moneta di venti centesimi è solo un fastidio perché non sai mai dove infilarla; neppure un caffè al bar, di fronte alla scuola di via Moriondo. Incontro Roberto il tecnico che si dice speranzoso dell’acqua caduta nella notte e mi parla dei funghi: “forse vengono ancora”-mi dice. Lo ascolto, nel suo parlare concreto, ma sono come calamitato in altra direzione. Sono rimasto con la mente incline a raccogliere il filo del discorso di questo primo mese di scuola: gli studenti nuovi, la scuola nuova dopo l’estate trascorsa come un vortice, troppo rapidamente, i professori che salgono le strette scale e che ripongono in sé il desiderio di colmare il ciò che non va, i corridoi da tinteggiare, le aule strette, il gap conoscitivo da colmare, il personale che pensa a questo e a quel motivo di ordine e di disordine. Gli studenti che mi vogliono parlare e vogliono essere ascoltati. Le loro idee sono sempre chiare. Il loro parlare grintoso come la puntina di un giradischi che solca il vecchio disco di vinile. Mi sono detto: che cosa sono queste idee, questi concetti, questi segni che circolano nella pacata corrente del Gange della scuola. Mi è venuto in mente Dante ed il suo viaggio condotto fino ai più reconditi ambiti della coscienza umana. Mi è venuta in mente la selva, le tre fiere, la montagna della conoscenza che illuminata dalla bellezza del sole si pone in contrasto con il male, il dolore, la sofferenza, la paura della morte. Mi è venuto in mente Virgilio, questo latino che aiuta Dante ad usare la ragione, gli insegna a riconoscere la relazione tra la causa e l’effetto. “Se tu ritorni nella selva, la tua depressione e la tua angoscia arriveranno all’acme della disperazione, vieni con me,” gli dice, “e vedrai che ti insegnerò a scalare le montagne ed a discendere nei baratri più profondi, negli abissi più spaventosi dell’agire umano, della sua cattiveria e della sua coscienza.” La paura si appoggia alla ragione, alla filosofia. Questa è il suo bastone e la sua bussola. Poi Dante dopo il lungo viaggio, la lunga discesa agli inferi della coscienza umana, dopo la “natural burella” sporco, annerito, stanchissimo ma rinfrancato giunge sulla spiaggia del Purgatorio: un altro mondo. Dopo il terrore, la paura e l’angoscia infinita della fine del sé ricomincia il cammino della speranza. Inizia di lì la sua catarsi, la sua purificazione dal male in maniera progressiva, faticosa la scalata alla montagna della purificazione. La coscienza dell’uomo per liberarsi dal fardello del male, per ritrovare la purezza, dopo essere stata invasa dalla superbia, dalla cupidigia e dalla passione, deve fare pratica di purificazione, ripulendosi poco a poco, con esercizio, con fatica, con sudore e con l’ausilio della ragione e della filosofia. Dopo, una volta sulla vetta, una volta giunti sull’Everest della filosofia, occorre il bagno rituale nei fiumi dell’oblio e della rinascita spirituale. Il corpo si riconcilia con la sua mente: la memoria del male, delle tensioni politiche di Firenze, della sua cacciata a seguito delle menzogne e delle calunnie. L’infamante accusa di baratteria, è stata cancellata. Il placido Gange-Leté cancella e l’Eunoé fa rinascere l’entusiasmo dopo la depressione, il gusto ed il piacere della vita. Ma qui, da questo momento la ragione non può più essere sufficiente, occorre un’altra forza, più incomprensibile, non più legata alla relazione causa effetto. Occorre una forza simile a quella dell’amore, la grazia. Virgilio, il maestro, saluta il suo allievo prediletto. Ora c’è bisogno di altro. Di qui in poi dopo essere stati sulla vetta della montagna ciò che accade non è più legato alle parole, né alla semantica, né alla semiotica. E’ quello stato, mi immagino, che conoscono bene gli scalatori, quando dopo lotte estenuanti con la montagna, con le pareti impossibili, contro la forza di gravità che li spinge verso il fondo, verso il baratro, con le loro forze, le loro dita forti come l’acciaio al titanio, trovano scalino dietro scalino, appiglio dopo appiglio, la vetta. E dopo la vetta il loro spirito, e la gioia della creazione. La gioia che si rinnova quando l’uomo ( la parte bella dell’uomo) si riconnette con la forza degli atti che la generano. Mi è ritornata fra le mani la moneta da venti centesimi. Penso: “se tutti gli uomini vedono in questo momento il sogno e la sua adesione alla realtà ,questa ora diviene lo zahir di Borges e fa vivere il sogno, l’oximoron permanente diviene realtà, il sole nero risplende con la sua parte di luce sulla terra e a poco a poco svaniscono.” Penso anche a Dante ed alla sua solitudine, in quell’oscura casetta di Ravenna. I suoi figli lontani. Gli amici perduti nell’alveo lontano della memoria .Penso a quell’oggetto piccolo trovato per caso, quell’idea, che tratto dopo tratto, sono divenuti i 14.000 versi della Divina Commedia. Mi viene in mente Virgilio. Mi vengono in mente i maestri. Mi viene in mente la lunga storia della filosofia e del suo cammino razionale. Mi viene poi in mente Tzinacàn mago della piramide di Qaholom incendiata da Pedro de Alvarado nel Messico dilaniato e distrutto dagli spagnoli. Solo nella sua cella dopo anni non sa più quanto tempo è trascorso. Ha un solo compagno che con passi lenti e felpati è sopra la sua cella, un giaguaro. Lo sente, c’è ma non lo vede. Se lo immagina. Lui è lì da tempo. Vi è stato imprigionato perché non ha voluto rivelare agli spagnoli il luogo dove era tenuto nascosto il tesoro della piramide. Non gli rimane nient’altro che ricercare gli oggetti con la memoria: la forma di un albero medicinale, l’ordine e la successione di una serie di pietre che rimandavano alla forma ed alla geometria del cosmo. Solo così la sua realtà può esistere. Dopo anni, impossibile dire quanti, l’oggetto del ricordo prese forma: ricordò che una formula, quella del Dio riferiva circa l’origine delle cose. Questa stessa formula sarebbe servita a scongiurare la fine della comunità umana alla quale egli apparteneva. Dove però poteva il Dio aver scritto la formula? In quale luogo? Come ritrovarla con la memoria? All’improvviso dopo tanto cercare e tanta pietà che a tratti si faceva strada nella disperazione, si ricordò che il giaguaro, proprio il giaguaro che con i suoi passi felpati gli faceva sentire senza scampo la sua solitudine di uomo e di sacerdote, era uno degli attributi del Dio. Allora dedicò tutto il tempo per comprendere la forma delle macchie sulla pelle del giaguaro. Sulla pelle gialla le macchie nere si alternavano. Alcune di esse formavano righe trasversali nella parte posteriore delle zampe; altre di forma anulare, si ripetevano. Forse erano lo stesso suono o la stessa parola. Molte avevano dei limiti rossi. Quale sentenza può scrivere una mente assoluta, divina? Nel linguaggio umano non ci sono proposizioni che non implichino in sé l’universo intero; dire tigre significa pensare alle tigri che la generarono, i cervi che divorò, l’erba verde di cui si alimentarono i cervi, la terra che fu generatrice della tenera erbetta, il cielo che diede la luce e l’energia alla terra. Tzinacàn pensò che una mente assoluta doveva implicare un processo completo. Un Dio dicendo una parola deve poter dire con quella tutto. Il dormire, il sognare non riconducevano altro che da un sogno a quello anteriore. Un uomo si confonde gradualmente con la forma del suo destino; un uomo è ciò che le circostanze fanno che lui sia. Il sacerdote Tzinacàn prende finalmente coscienza che lui non era altro che un prigioniero. Dal labirinto dei sogni egli ritornò all’umida prigione. Fu allora quando ritornò alla semplicità che accadde ciò che non si può né dimenticare né comunicare: l’unione con il divino. L’unione era fatta di una ruota altissima composta di acqua e fuoco nel contempo. Nella ruota intrecciati c’erano tutti i fatti, passati, presenti e futuri. Lì c’erano cause ed effetti. Egli vide gli infiniti processi della realtà. La felicità era formata da tutti quei processi. Finalmente poté comprendere anche la scrittura del Dio. Una formula fatta di quattordici parole casuali. Sarebbe stato sufficiente pronunciarle a voce alta perché il sacerdote acquistasse l’onnipotenza. Decide però di non farlo. Ora che ha conosciuto Dio non gli serve più ritornare Tzinacàn e rifondare l’impero della piramide. Sa che quell’impero finito, decaduto, distrutto un giorno sarà quello degli spagnoli e che poi dopo avverrà anche per loro ciò che già avvenne a Moctecuzoma. La Storia dell’uomo ripete i suoi simboli. Come quella della poesia. I maestri sono tali perché esistono degli allievi. Dante non avrebbe mai potuto immaginare nel 1317 che nel 1949 un bibliotecario di Buenos Aires l’avrebbe amato profondamente. Non poteva immaginare quali sentieri segreti seguono i maestri con i loro messaggi. E neppure quali allievi ne raccogliessero le intime loro verità. Borges volle onorare Dante e lo fece nel massimo modo. Dante dice dell’amore: “Quella circulazion che sì concetta /pareva in te come lume reflesso , /da li occhi miei alquanto circunspetta, /dentro da sé, dal suo colore stesso,/mi parve pinta de la nostra effige (...). Dante e Borges si parlano tra di loro. I concetti si cercano. Le risposte si dischiudono agli orizzonti del senso. Rientro dal portone principale, ritorno come sempre, con passi ansiosi verso la presidenza, tengo tra le mani quell’oggetto, quella piccola insignificante monetina da venti centesimi, zahir, ormai la chiamo così anch’io. E penso che in fondo anche gli oggetti si parlano tra di loro. Oggetti materiali, ma anche libri, idee, concetti. Quanto è il nostro sapere, in quanti rivoli esso si dipana, ma il valore di ciò che si trasmette con la calda parola, del maestro, scritta o data oralmente , è l’intero mondo dei valori che conduce a noi stessi. Vedo una ragazza , ora ricercatrice, con il suo ex professore di Fisica che mi parlano della visita ad un centro di ricerche. Ripenso a quell’ “allor si mosse, e io li tenni dietro”, e non so bene perché ma sento come un movimento nell’anima, che è come lo stupirsi di fronte alla forza di certe poesie che “fanno venire la pelle d’oca”. Penso a questi concetti, a queste righe quando auguro ai nostri ragazzi, ai nostri studenti ed ai loro maestri, un buon anno scolastico ricco di lavoro ma anche di poesia.
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