Quando si era “piccoli”, bimbi prima e poi ragazzini, ci si divertiva molto o parecchio, con un personaggio del cinema, soprattutto, muto che si chiamava Charlot, una sorta di maschera, creata da Charlie Chaplin, un attore inglese, poverissimo e sfortunato di nascita dapprima, uno degli attori più rilevanti e meglio pagati, poi. Un genio naturale raramente visto nella storia del cinema. Charlot medesimo disse di sé che quel personaggio simboleggiava un gagà londinese finito sul lastrico e da lui pensato come una figura satirica. Nel suo pensiero, i suoi indescrivibili pantaloni rappresentavano una rivolta contro le convenzioni, i suoi baffi la vanità dell’uomo, il cappello e il bastone erano tentativi di dignità e i suoi scarponi gli ostacoli permanenti che anche quand’era egli sovrappensiero lo facevano inciampare e costituivano un intralcio ridicolo e, dunque, comico all’azione. Ci emoziona ancora al pensiero che si rinnova quel tempo e quel ridere e quel sorridere: Il monello” del 1921, “Luci della città” del 1931, “Tempi moderni” del 1936, “Il grande dittatore” del 1940. Non capivamo, forse, che egli nelle sue opere aveva trattato il mondo come si sviluppava nel sec. XX. Non ne capivamo forse le difficili e sottintese vicende che erano il sostrato degli eventi narrati per lo più con il corpo e con gli sguardi. Ci faceva ridere perché il suo goffo e improvviso inciampare ci pareva inutile e ridicolo. In apparenza, però, perché in realtà esso costituiva, in quella sintassi, un segno ed un momento fondamentale: il porsi critico rispetto alla realtà con disincanto ed in forma trasognata. Della realtà pur difficile e storicamente talvolta inaccettabile o, poco accettabile, bisognava ridere. Se ne doveva trarre il tratto, il carattere suo povero e bizzarro, per poterla ridicolizzare: la storia, il mondo industriale contemporaneo, la povertà venivano dunque disegnati come profonde ingiustizie e segno di ineguaglianza. Il solo buono e indifeso per il suo ingenuo accostamento al mondo può condividere il bene con il buono. L’uomo, il vagabondo non ha altro con sé se non la propria andatura, il suo ondeggiare goffo, il suo avvicinarsi all’amore illuso, alla sua speranza e alla sua illusione. Eppure ci faceva ridere, a volte in maniera contagiosa e a crepapelle. Il suo modo d’essere è, nella realtà cinematografica e nella sostanza, quello della non collaborazione al male: la libertà di scegliere e di decidere l’ironica maniera di trarre il dado del ridicolo. Sdrammatizzare, dunque, attraverso il segno visivo, l’immagine, il corpo, la prossemica ed i suoi movimenti per ricostituire una storia ed una realtà altra del mondo, quella dell’arte, da quello “barbaro lacero e corso” dalle vanità della orribile guerra (pensiamo al “grande dittatore” che gioca con la palla del mondo), dalla cupidigia, dalle ambizioni e dal male. Dove possiamo seminare un granello di felicità? Vicino a noi, intorno a noi: troppo lontano ci si può perdere e, magari, non saremmo in grado più di vedere ciò che possiamo imparare. Ci sono cose belle, semplici ed accessibili: apprezziamole ed amiamole. La famiglia e le sue certezze come pratica di attenzioni più che di ideologie: apprezziamola, stimiamola, valorizziamola, amiamola. L’amicizia come pilastro di forza e di certezza: gratifichiamola e assaporiamone il profumo. La comunità umana oggi lontana: richiamiamola alla sua funzione d’aiuto e di ospitale comune certezza. La speranza, oggi spossata, richiamiamola, rinvigorita dal nostro appello al mondo dell’umana avventura mutata in forza ed energia positiva: “farmaco ospitale” direbbe Omero. Che il malinconico disincanto possa ridare le ali al progetto della dignità e aprirsi a quello stupore che solo può dire a se stesso: sono qui e ci sto bene, con il sorriso ritrovato, anche grazie al pensiero che ci è corso a Charlot, nel rinnovato messaggio del titanico presente amore. Buon Natale 2012
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